Battaglie In Sintesi
9 aprile 1848
Figlio di Carlo Emanuele principe di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ebbe genitori di tendenze apertamente liberali e, educato a Parigi e a Ginevra, fu sottotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Tornò nel Piemonte nel maggio 1814 e, erede presuntivo al trono, nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia del granduca di Toscana Ferdinando III. Ambizioso, profondamente imbevuto di orgoglio dinastico e insieme insofferente dell'uggiosa atmosfera della corte di Vittorio Emanuele I, coltivò l'amicizia di giovani liberali, come Santorre di Santarosa e C. di San Marzano, e fu a conoscenza, e per un momento anche ambiguo fautore, della cospirazione che portò al moto piemontese del marzo 1821. Reggente per l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, concesse la costituzione di Spagna (14 marzo), ma, sconfessato dal nuovo sovrano Carlo Felice, ubbidì all'ordine di recarsi a Novara presso le truppe del gen. V. Sallier de La Tour. Confinato in mal celato esilio a Firenze presso la corte del suocero, per riguadagnarsi la considerazione di Carlo Felice, andò a combattere i liberali spagnoli al Trocadero (ag. 1823). Morto Carlo Felice il 27 aprile 1831, C. A. salì al trono e, disprezzato dai liberali, si fece paladino dell'assolutismo regio e accarezzò sogni di crociate legittimiste. A tal periodo appartengono la convenzione militare con l'Austria (23 luglio 1831), i feroci processi anticarbonari e antimazziniani del 1833-34, il continuo appoggio ai gesuiti che rese soffocante l'atmosfera culturale e morale del Piemonte di quegli anni, l'aiuto morale e finanziario dato al tentativo legittimista della duchessa di Berry in Francia e al movimento reazionario del Sonderbund. Gelosissimo del suo potere personale, C. A. lo manteneva contrapponendo il Consiglio di stato (creato il 18 ag. 1831) ai ministri, oppure contrapponendo ministro a ministro (il clericale C. Solaro della Margherita al liberaleggiante E. di Villamarina), e ancora allontanando senza esitazione ministri creduti onnipotenti quali il conte A. della Escarena nel 1835. E le riforme interne, dall'abolizione della costituzione e della feudalità in Sardegna, al codice del 1837 che creò l'unità giuridica degli stati sabaudi, all'abolizione delle barriere economiche interne, ebbero ancora carattere di paternalismo illuminato. La crisi d'Oriente del 1840, modificando i dati fondamentali della politica europea, lo indusse a mutare politica e ad abbracciare un programma antiaustriaco di espansionismo territoriale nella pianura padana. Concesso, dopo ansie, dubbî e tentennamenti, lo statuto (4 marzo 1848), iniziò soltanto il 23 marzo - quando le Cinque giornate di Milano volgevano al termine - la campagna contro l'Austria. Ma, dopo alcune vittorie iniziali, le sconfitte di Custoza e di Milano lo costrinsero all'armistizio Salasco (9 ag. 1848). Accusato da ogni parte di tradimento, d'incapacità militare, di scarso animo, odiato dai Lombardi per la politica di tradizionale annessionismo piemontese perseguita durante la guerra, C. A. volle riprendere le ostilità, ma, disfatto a Novara, dovette abdicare (23 marzo 1849). Nacque allora la "leggenda" carloalbertina, che, lasciando nell'ombra l'aperto reazionarismo della prima parte della vita del re e le ambiguità antiche e recenti, fece di C. A. un paladino del riscatto nazionale e della causa della libertà italiana: leggenda che non mancò di esercitare un influsso sull'opinone pubblica a favore della monarchia sabauda.
Feldmaresciallo austriaco, inizio' diciottenne la carriera militare facendo le prime esperienze militari contro i Turchi, mentre nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontarî toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).
Alla rivoluzione del Lombardo-Veneto faceva seguito l'intervento di Alberto, sostenuto dai contingenti degli altri Stati italiani. La guerra, per compiere l'opera della rivoluzione, avrebbe dovuto essere una guerra rivoluzionaria e nazionale nel più ampio senso della parola, che il Piemonte, pur col suo solido esercito, non avrebbe potuto aver ragione d'un impero con una popolazione sette volte superiore. Occorreva di utilizzare e guidare le forze che la rivoluzione offriva, non solo nel Lombardo-Veneto, ma in tutta Italia e cercare anche accordi colle altre nazioni insorte dello Stato asburgico. Si lamentò invece fin d'allora il tardivo intervento di Carlo Alberto, il mancato tempestivo sfruttamento di circostanze particolarmente eccezionali, la prima grande occasione perduta in questa guerra delle occasioni perdute. Nessun dubbio che la guerra del 1849 risulto' una gloriosa affermazione del valore militare degli italiani, sia come un magnifico esempio di dedizione del nobile Piemonte alla nazione italiana, come la prova suprema che doveva legare il piccolo regno Alpino e la sua dinastia, scesi due volte, con generosità e audacia, in lotta contro la maggior potenza militare d'Europa, alla grande opera nazionale riscatto, facendo anzi d'entrambi gli antesignani di questo. Tuttavia, in sede storica non si può non rilevare anche il difetto originario, che si riassume nel mancato carattere di guerra rivoluzionaria, in cui l'esercito piemontese avrebbe dovuto raccogliere, coordinare, guidare le forze che la rivoluzione aveva creato, o aveva, malgrado la riluttanza dei governi trascinato con sé, per completarne l'opera, aggravando la crisi dell'esercita austriaco e dandogli il colpo di grazia finale. Si trattava, infatti, d'una guerra rivoluzionaria e nazionale che avrebbe richiesto, in chi era chiamato a dirigerla, eminenti doti politiche e militari insieme. È vero, la rivoluzione del Lombardo-Veneto era scoppiata improvvisa, impreveduta, ma tutta la popolazione, e non quella delle città soltanto, aveva mostrato tale virtù da ridurre il superbo esercito austriaco, in Lombardia almeno, a una massa disordinata, demoralizzata, affamata. Bisognava non dar tregua al nemico, non concedergli un solo istante per riaversi, compiere quanto, in vista di ciò che già era stato fatto, poteva sembrare facilo e sicuro. E invece il re Carlo Alberto era giunto tardi, dopo che i volontari genovesi, fiorentini, novaresi erano stati trattenuti al confine, senza che uni libbra di polvere fosse stata inviata ai combattenti di Milano nei momenti più gravi e tragici. Non solo, ma proprio quando occorreva afferrare l'attimo fuggente e incalzare un nemico in rotta, che si ritirava faticosamente, spossato da tanti giorni dì lotta, raccogliendo le forze disseminate sopra un terreno vastissimo, in piena rivolta, cercando la salvezza in fortezze mal presidiate, non apparecchiate ad assedi, minacciate esse stesse dalla ribellione interna, proprio allora l'esercito liberatore s'era attardato fra mosse lente e incerte. L'esercito imperiale aveva avuto modo di porsi in salvo nel Quadrilatero e lì ricostituirsi, e la guerra finiva perciò col presentarsi all'esercito piemontese sotto un altro aspetto: di lotta impari contro uno dei meglio organizzati e agguerriti eserciti d'Europa, appoggiato a un sistema fortificato subito rimesso in efficienza, tale da costituire la base ideale per una strategia difensiva-controffensiva. Ancora nel gennaio 1848 l'esercito piemontese è in gran parte dislocato dal lato della Francia: nel febbraio comincia a ricevere ordini per un ammassamento nella zona d'Alessandria e verso il Ticino. Il 1° marzo sono richiamati i contingenti di riservisti di quattro classi; al momento dell'insurrezione milanese i quattro quinti dell'esercito piemontese, ossia 65 000 uomini, sono sotto le armi. Ma invano il Cavour insiste perché si corra in aiuto dei milanesi insorti: la guerra non è dichiarata che il 23 e l'esercito non varca il Ticino che il 29; due piccole avanguardie, che hanno passato il fiume il 21 sera e il 26, ricevono ordini perentori di non spingersi oltre Treviglio. Invano il generale Passalacqua, mandato in missione a Milano, scrive al ministro della Guerra il 25 marzo: «Creda, Eccellenza, che se vogliamo riuscire a qualche cosa d'onorevole, bisogna assolutamente che la nostra armata cerchi il nemico dove si troverà,..; se non ci mettiamo prontamente ad azioni, siamo perduti! » Il maresciallo Radetzky aveva in Milano 10 battaglioni, e nessuno defezionò. Verso il termine della grave lotta, all'uscire dalla capitale lombarda, egli raccoglieva 5 nuovi battaglioni in efficienza, e il resto di altri 3; ma date le non piccole perdite subite, si può calcolare il suo esercito di non più di 15 battaglioni davvero efficienti, cui si devono aggiungere 8 squadroni di cavalleria e 30 cannoni. A Lodi, dove sosta dalla sera del 24 marzo al mattino del 26, è ingrossato da un battaglione che ha represso i tentativi di rivolta della popolazione e gli ha garantito il ponte dell'Adda. Il 26 è a Crema e qui si uniscono a lui un battaglione di Kaiserjaeger (reparti di fanteria leggera dell'esercito imperiale austriaco, reclutati nei territori alpini dell'impero, in particolare nella cosiddetta Contea del Tirolo) di stanza nella città e un battaglione e mezzo proveniente da Brescia, che insieme con 2 squadroni e una batteria d'artiglieria, hanno già provveduto ad assicurare i ponti dell'Oglio. I battaglioni efficienti salgono così a 18 o 19. Il Radetzky lascia Crema col grosso il mattino del 27, e la sera è a Soncino. La sera stessa e al mattino del 28 la maggior parte dell'esercito passa indisturbata l'Oglio, e il 28 sera è a Manerbio, dove giungono anche 4 battaglioni provenienti da Pavia e da Piacenza. Le forze austriache sono ormai salite a 22 o 23 battaglioni. Il periodo di maggior crisi può dirsi superato, se il Radetzky pensa di poter distaccare e inviare a Mantova, il 29 mattina, il generale Wratislaw, comandante del I Corpo, con 7 battaglioni e 18 pezzi d'artiglieria. La sera del 29, varcato il Chiese, il grosso è a Montichiari. Ormai l'esercito austriaco è vicino al Quadrilatero e già si trova nella zona ben nota dei campi d'esercitazioni annuali. Il 31 il maresciallo è a Peschiera e il 2 aprile entra in Verona. Vista la reale situazione austriaca, vediamo che cosa faceva o avrebbe potuto fare l'esercito piemontese. Ancora il 20 marzo si poteva disporre per varcare il 23 il Ticino coi 5 reggimenti di fanteria di stanza a Novara e in Alessandria, i quali avevano ormai i battaglioni della forza di 600 uomini, coi 3 reggimenti di cavalleria di stanza a Vigevano, a Vercelli e a Torino, e colle 2 batterie da campagna di stanza ad Alessandria: una massa di 15 battaglioni, 18 squadroni e 16 pezzi d'artiglieria, che, lanciata contro i 15 battaglioni austriaci, sminuiti e sfiniti, avrebbe potuto esercitare un'influenza decisiva. Tale massa avrebbe pure potuto essere imbarcata sul Po e mandata a Mantova, dove fino a tutto il 23 rimasero, come abbiamo visto, 3 battaglioni italiani con la popolazione in fermento, e dove fino al 27 sera il governatore non ebbe altro rinforzo che un battaglione e 2 compagnie d'ungheresi ritiratesi da Modena. Tale massa era pur tale da poter tentare di precedere in Verona. Comunque, essa avrebbe potuto aver subito in suo potere Mantova e Legnago, semplice doppia testa di ponte sull'Adige, quasi sguarnita di truppe, non difesa all'interno dalla parte del fiume.
Ma restringiamo l'esame al possibile impiego delle forze che passarono il Ticino. Il 25-27 marzo due avanguardie varcavano il fiume, l'una a Magenta, l'altra a Pavia. La prima era la colonna Bes, forte di 3000 fanti, 600 cavalieri e 8 cannoni; la seconda la colonna Trotti, di 4000 uomini scarsi e 8 cannoni. Si trattava dunque d'una forza complessiva di 7000 fanti, 600 cavalli e 16 pezzi, cui si dovevano aggiungere 3000 volontari già a Treviglio: dunque 10 000 uomini. Le due colonne, operando da nord e da sud, avrebbero potuto cogliere ancora in crisi il Radetzky al passaggio dell'Oglio; e dato anche che non fosse loro riuscito d'annientare le forze austriache e precederle in Verona, avrebbero potuto tentare un'azione avvolgente dal lato del Trentino, che chiudesse al maresciallo l'ultima via di comunicazione con la Monarchia e l'obbligasse, abbandonato il Quadrilatero, ad aprirsi il passo verso l'Isonzo attraverso il Veneto insorto. Oppure una marcia rapidissima su Mantova, ancora guarnita da 6 battaglioni per metà italiani, e su Legnago, che stabilisse un collegamento colla Venezia in un'ampia visione delle necessità dell'intero teatro di guerra. E neppure troppo aleatoria sarebbe stata una mossa della colonna Trotti da sola, imbarcatasi sul Po, contro Mantova, se si pensa che avrebbe potuto il 27 sera essere rinforzata a Pavia da altri 3 battaglioni, disponendo così di 10 battaglioni, mentre nella vasta Mantova le forze veramente decìse alla difesa fino alla sera del 30 furono poco più di 3 battaglioni, colla popolazione nettamente ostile. Comunque, le due colonne scelte nulla fecero. Il Bes non volle saperne di proseguire nello stesso pomeriggio del 26 per Treviglio, valendosi della strada ferrata, adducendo di non avere ordini. Solo il 30 la sua avanguardia varcava l'Oglio, facendosi precedere dai volontari, e il 31 entrava in Brescia, seguita il 1° aprile dall'intera colonna. La quale rappresentava il fiancheggiamento da nord e insieme l'avanguardia dell'esercito piemontese. Quale altra energia doveva mostrare la colonna Garibaldi dei Cacciatori delle Alpi con analoga funzione undici anni più tardi! Quanto alla colonna Trotti, il 27 da Pavia muoveva verso Lodi e la sera occupava Sant'Angelo al Lambro. Il Trotti pareva deciso ad agire con energia, e la mattina del 28 la sua avanguardia entrava in Lodi. Ma un ordine perentorio del capo di Stato Maggiore, generale Salasco, faceva retrocedere di nuovo la colonna a Sant'Angelo; e ciò semplicemente per proteggere l'entrata dell'esercito piemontese in Lombardia, quasi che ci fosse stato da temere un ritorno offensivo del maresciallo Radetzky, ormai sull'Oglio, per cogliere il grosso dei piemontesi al passaggio del Ticino a Pavia! L'esercito piemontese passava dunque il Ticino il 29, quando il Radetzky era ormai dietro l'Oglio e sul Mella; ma solo il 31 marzo si poneva in movimento lungo la direttrice Lodi-Crema: erano ormai passati dieci giorni preziosissimi. Comunque, le truppe erano ben animate, riservisti, rozzi e semplici contadini in gran parte, deposta la vanga e imbracciato il fucile, erano accorsi, al dire di un valoroso e intelligente ufficiale piemontese, Ferdinando Pinelli, lieti e pieni di slancio in aiuto dei fratelli Lombardi, per cacciare i tedeschi dall'Italia, « quell'Italia il cui nome rammentare pochi mesi prima era quasi delitto..., quella Patria di cui niuno mai aveva loro tenuto parola...; sì essi dicevano che "andavano in Italia", si dicevano Piemontesi e non Italiani, ma pugnarono da forti e alla prova ebbero cuore e braccio italiano ». Sembra dunque che l'esercito miri a raggiungere Brescia e a tagliare, fra Verona e Trento, al maresciallo austriaco la vìa dell'Adige, la sola che tuttavia gli rimanga per comunicare colla Monarchia. Ma ecco nel Comando supremo sorgere il dubbio che Pìzzighettone, sul basso Adda, possa essere ancora occupata; e tale dubbio vale a paralizzare le mosse di tutto l'esercito per trentasei ore! E già si manifesta la disorganizzazione lei servizi! La conclusione si è che il piano d'una ardita e rapida mossa di fianco per la montagna sembra troppo audace e di difficile esecuzione: meglio raccogliere e riordinare l'esercito per qualche giorno nella piana di Cremona, colla facile via di trasporto del Po. Il 4 aprile Carlo Alberto riunisca quivi un consiglio di guerra. Nei due giorni di permanenza non s'è fatto videre dalla popolazione: «Ha fatto stupore il Re, - annotava un modesto cronista cremonese, - giacché se veniva ad esporre la sua vita per la nostra liberazione, doveva essere allegro e ridente, invece era tetro e sospettoso: si diresse al suo alloggio, e non sorti' mai nei due giorni che stette qui a Cremona ». Nel consiglio di guerra viene ventilato, a quanto sembra dal generale De Sonnaz, un piano audace: avanzare lungo il Po, girare la fortezza di Mantova, penetrare nel Veneto, collegandosi coi pontifici e facendo di Venezia la propria base d'operazione. Ma prevale sutito una concezione molto più modesta: puntare verso il medio Mincio, cosi' da obbligare gli austriaci a ritirare le loro retroguardie e a por termine alle loro razzie, miranti ad approvvigionare le fortezze. Obbiettivo troppo imitato e non corrispondente alla gravita' dell'ora! Il 5 aprile l'esercito si rimette in moto, e una parte la sera varca il basso Oglio; ma la sorpresa a una gran guardia piemontese nella notte ad opera d'una ricognizione austriaca a Marcarla, vale a produrre del trambusto e a fermare praticamente quasi tutto l'esercito per l'intero giorno 6. Il 7 aprile le truppe riprendono la marcia piegando verso nord-est: si abbandona la direttrice di Mantova per prendere quella del medio Mincio; l'esercito dovrà proseguire colla sua destra fino a Goito, quindi, facendo perno su questa località, dispiegarsi fino a Solferino e a Castiglione delle Stiviere, prendendo saldo piede sull'orlo dell'anfiteatro morenico del Garda, e procedere poi con un'ampia conversione verso il Mincio.
Il maresciallo Radetzky l'8 aprile si trova ad avere un velo di tre compagnie sulla destra del Mincio, e precisamente una davanti a ciascuno dei ponti di Goito, di Valeggio e di Monzambano, i tre passaggi del fiume tra Mantova e Peschiera. E sull'altra riva 3 battaglioni, uno per ogni passaggio, e a sostegno di ciascuno di questi, qualche chilometro più addietro, un paio di battaglioni; e più indietro ancora, davanti a Villafranca, sulla strada da Valeggio a Verona, il grosso del I Corpo, 15 battaglioni circa. Solo a Goito la compagnia al di qua del fiume e il battaglione sull'opposta riva, oppongono una tenace resistenza. L'avanguardia della la divisione, composta da un plotone d'Aosta Cavalleria, dalla compagnia bersaglieri divisionale (150 uomini) e dal piccolo battaglione Real Navi (300 uomini), urta il 9 aprile, alle otto di mattina, nella tenace resistenza della compagnia di Kaiserjaeger, che prima tenta difendere il villaggio di Goito, poi ripiega per coprire direttamente il ponte, finché i genieri austriaci non abbiano tutto disposto per farlo saltare; e solo dopo un'ora di accanito combattimento ripassa il fiume, abbandonando numerosi morti e feriti, nonché una quarantina di prigionieri, mentre due archi del ponte crollano. Anche gl'impetuosi assalitori subiscono notevoli perdite: fra gli altri rimane ferito gravemente alla mascella il colonnello Alessandro La Marmora, fondatore dei bersaglieri, chiara intelligenza e animo integerrimo; e ferito alla spalla è il comandante del Real Navi, maggiore Maccarani. Gli avversari si trovano ora separati dal fiume, ma si scambiano un violento fuoco dalle due rive: da un lato il battaglione di Kaiserjaeger tirolesi, rinforzato da una compagnia di croati, da un plotone di ussari e da quattro cannoni; dall'altro la compagnia bersaglieri e il piccolo battaglione Real Navi, rinforzati poi dalla compagnia volontari mantovani Griffini e da elementi della brigata Regina e della brigata Aosta, che via via sopraggiungono, nonché da 4 pezzi d'artiglieria. Lo scambio di fuoco continua per ben tre ore; poscia, quando gli austriaci cominciano a ritirarsi, una parte dei bersaglieri e del Real Navi, valendosi della spalletta del ponte rimasta ancora intatta, traversa arditamente il fiume, si impadronisce di un cannone e fa un'altra trentina di prigionieri. Gli zappatori ristrutturano il ponte: verso le quattro pomeridiane esso è traversato da altri 3 battaglioni che costituiscono una specie di piccola testa di ponte. Gli austriaci ripiegano su Villafranca.
Questo fu il primo vero contatto cogli austriaci, detto comunemente combattimento del ponte di Goito per distinguerlo dalla battaglia del 30 maggio successivo. I piemontesi si batterono con slancio e abilità, pur avendo di fronte la più quotata specialità austriaca, quella dei famosi cacciatori imperiali tirolesi. Alessandro La Marmora specialmente ardeva dal desiderio di mettere alla prova la sua tanto ostacolata e incompresa creazione, sebbene anche adesso dovesse deplorare che il battaglione di bersaglieri fosse stato frazionato fra le varie divisioni, cosicché i risultati ottenuti da una compagnia non potevano non essere limitati. Fu una vera jattura per l'esercito piemontese che questo eccellente ufficiale fosse subito gravemente ferito e messo fuori combattimento per l'intera campagna. Del resto, questo combattimento mostrava come il Comando supremo austriaco non intendesse affatto impegnarsi a fondo a contrastare il passaggio del Mincio.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962